Non ho capito, chi è che parla?
Quando mi sono iscritto a Facebook, quando ho iniziato ad approcciare
Twitter, me lo sono lungamente chiesto. Perché gli strumenti di comunicazione
più narcisistici che l’uomo abbia mai concepito, i social network, mi propongono come subdola regola di
impostazione dei post la terza persona? “Daniele oggi è…”. Dai, che te lo
ricordi anche tu. “Oggi è davvero stanco”, “Non ne può più delle ingiustizie”,
“Ha mangiato un canguro vivo e lo stomaco sobbalza tentando di trasformarsi in
marsupiale”. Leggevi questi status e ti chiedevi: ma precisamente, CHI? Di chi
stai parlando? Del tuo amico immaginario, della tua seconda o terza
personalità, del tuo vicino di casa che stai pedinando dallo spioncino?
Ovviamente la risposta era: di te stesso.
Facebook sembrava un raduno di familiari di Maradona.
All’inizio ho pensato: geniale, così potrai incolpare qualcun altro
di quel raptus suicida che ti ha fatto scrivere cagate spaziali senza
riflettere sulle conseguenze.
Esempio di post:
“LO RULLEREBBE DI
MAZZATE, QUELLO STRONZO DI GIANLUCA!”
Chat seguente:
Gianluca (detto “er Trenincorsa”): scusa, chi rulleresti?
Autore: io? Nessuno.
G.: Cazzo dici?
A.: “lo rullerebbe” qualcuno che non so. Mi hanno detto. Ho
sentito. Pare. Chi? [chiude la chat, cancella l’account, inghiotte il computer
per cancellare le prove, emigra in Nagorno Karabakh]
Inutile dire che parlare come Giulio Cesare, per quanto ti
incitasse a tirare fuori il Conte Serbelloni Mazzanti Viendalmare che abitava
in un angolino del tuo ego, non poteva essere sufficiente a solleticare il tuo
morboso autocompiacimento. I Mi piace o i follower conquistati di chi erano,
precisamente? Tuoi o di quell’altro? E poi come farai a gestire quei terribili
passati remoti o congiuntivi in terza persona (“crede che io vade… che io
andi… che io vado”)? No, il gioco non valeva la candela.
Ecco quindi che dopo un – a dir la verità cospicuo – periodo
di rodaggio, la terza persona è precipitata nel dimenticatoio. È stato bello
riappropriarci improvvisamente di noi stessi.
Immagino il primo che avrà postato su Facebook lo status
SONO FELICE!, seminando il panico tra i propri amici: “oddio, di chi sta
parlando?”, “sarà lui davèro davèro?”, “E chi cazzo è questo Felice?”, “’Sono’
in senso plurale, vero? Sta parlando a nome del nucleo familiare?”.
E così i social network sono diventati, finalmente, nostri. Oddio,
finalmente: in realtà abbiamo solo stappato la nostra ansia di primeggiare in
compagnia. Abbiamo ricevuto, come una cresima social, l’autorizzazione
definitiva per urlare opinioni, anatemi, proclami e chiamate alle armi che per
il 95% finiscono in un deserto che per miraggi da sbornia di rete immaginiamo ribollente di folla. “Come sto?”, “Firmate tutti!”, “Chiamo in
causa (seguono file interminabili di chiocciole)”. Due o tre pollici versi un
post ogni tre, un tweet ogni dieci, e noi col telefono in mano: che un tempo ci
si parlava dentro, ora ti illudi di usarlo per comunicare.
Su, su. È solo il primo stadio. Ne usciremo tutti; e se non
noi, i nostri figli.
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