domenica 21 settembre 2014

Capitolo 1: dalla terza persona all'ultrasoggetto

Non ho capito, chi è che parla?


Quando mi sono iscritto a Facebook, quando ho iniziato ad approcciare Twitter, me lo sono lungamente chiesto. Perché gli strumenti di comunicazione più narcisistici che l’uomo abbia mai concepito, i social network, mi propongono come subdola regola di impostazione dei post la terza persona? “Daniele oggi è…”. Dai, che te lo ricordi anche tu. “Oggi è davvero stanco”, “Non ne può più delle ingiustizie”, “Ha mangiato un canguro vivo e lo stomaco sobbalza tentando di trasformarsi in marsupiale”. Leggevi questi status e ti chiedevi: ma precisamente, CHI? Di chi stai parlando? Del tuo amico immaginario, della tua seconda o terza personalità, del tuo vicino di casa che stai pedinando dallo spioncino?
Ovviamente la risposta era: di te stesso.
Facebook sembrava un raduno di familiari di Maradona. 



All’inizio ho pensato: geniale, così potrai incolpare qualcun altro di quel raptus suicida che ti ha fatto scrivere cagate spaziali senza riflettere sulle conseguenze.

Esempio di post:
 “LO RULLEREBBE DI MAZZATE, QUELLO STRONZO DI GIANLUCA!”
Chat seguente:
Gianluca (detto “er Trenincorsa”): scusa, chi rulleresti?
Autore: io? Nessuno.
G.: Cazzo dici?
A.: “lo rullerebbe” qualcuno che non so. Mi hanno detto. Ho sentito. Pare. Chi? [chiude la chat, cancella l’account, inghiotte il computer per cancellare le prove, emigra in Nagorno Karabakh]

Inutile dire che parlare come Giulio Cesare, per quanto ti incitasse a tirare fuori il Conte Serbelloni Mazzanti Viendalmare che abitava in un angolino del tuo ego, non poteva essere sufficiente a solleticare il tuo morboso autocompiacimento. I Mi piace o i follower conquistati di chi erano, precisamente? Tuoi o di quell’altro? E poi come farai a gestire quei terribili passati remoti o congiuntivi in terza persona (“crede che io vade… che io andi… che io vado”)? No, il gioco non valeva la candela.

Ecco quindi che dopo un – a dir la verità cospicuo – periodo di rodaggio, la terza persona è precipitata nel dimenticatoio. È stato bello riappropriarci improvvisamente di noi stessi.
Immagino il primo che avrà postato su Facebook lo status SONO FELICE!, seminando il panico tra i propri amici: “oddio, di chi sta parlando?”, “sarà lui davèro davèro?”, “E chi cazzo è questo Felice?”, “’Sono’ in senso plurale, vero? Sta parlando a nome del nucleo familiare?”. 

E così i social network sono diventati, finalmente, nostri. Oddio, finalmente: in realtà abbiamo solo stappato la nostra ansia di primeggiare in compagnia. Abbiamo ricevuto, come una cresima social, l’autorizzazione definitiva per urlare opinioni, anatemi, proclami e chiamate alle armi che per il 95% finiscono in un deserto che per miraggi da sbornia di rete immaginiamo ribollente di folla. “Come sto?”, “Firmate tutti!”, “Chiamo in causa (seguono file interminabili di chiocciole)”. Due o tre pollici versi un post ogni tre, un tweet ogni dieci, e noi col telefono in mano: che un tempo ci si parlava dentro, ora ti illudi di usarlo per comunicare.

Su, su. È solo il primo stadio. Ne usciremo tutti; e se non noi, i nostri figli.


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